Le opere missionarie dei Frati Cappuccini

La cultura indigena dell’Amazzonia

12 villaggi in 100 anni

Tra coloni e ticuna

All’inizio del XX secolo l’indigeno era ancora considerato sostanzialmente un selvaggio al quale portare la luce della civiltà occidentale e cristiana. Il mondo indigeno era del tutto sconosciuto ai primi missionari umbri che si avventurarono lungo i fiumi. L’impatto fu sofferto. Ci sono voluti oltre vent’anni perché le due mentalità entrassero davvero in comunicazione e comunione. C’è un’immagine simbolo che racconta la molteplicità dell’Amazzonia: l’incontro del Rio Negro con il Rio Solimões che, a Manaus, dà vita al Rio delle Amazzoni. I due fiumi, uno color argilla, l’altro nero, corrono affiancati per venti chilometri prima di iniziare a fondersi l’uno nell’altro. È la metafora dell’incontro tra due civiltà diverse in tutto, che pian piano imparano a conoscersi. All’arrivo nell’Alto Solimões i missionari incontrarono prima di tutto i coloni che dal nord-est del Brasile erano venuti fino lì a tagliare gli alberi della gomma, poi con i “caboclos”, figli e nipoti di immigrati europei e meticci. Tutta gente che lavorava duramente, ma che sopravviveva appena, priva di tutto o quasi. Poi lo scenario iniziò a cambiare.

Il primo missionario a tessere le fila in modo sistematico e continuo con la cultura indigena fu Padre Fedele d’Alviano. A metà degli anni ‘30 si misurò con la realtà indigena senza remore e pregiudizi. Senza il suo coraggio il rapporto con gli indios Ticuna non sarebbe mai nato. Ha segnato un percorso che altri dopo di lui hanno seguito e oggi continuano a seguire, a Manaus, Remate de Males, Tonantins, Amaturá, São Paulo de Olivença, Benjamin Constant, Santo Antônio do Içá, Belém do Solimões, Tabatinga, Atalaia do Norte, Humaitá, Rorainópolis. Nel Museo si potrà vivere il racconto dell’avventura culturale, religiosa e umana che da oltre cent’anni vede come protagonisti frati e indios.